Con l’epilessia si può convivere e in questo i farmaci hanno un ruolo cruciale. Le terapie farmacologiche sono efficaci in circa il 70% dei casi, attenuando l’eccesso di eccitabilità delle cellule cerebrali responsabile delle crisi. Nel trattamento dell’epilessia oltre alle numerose opzioni terapeutiche farmacologiche esistono altri approcci come le terapie chirurgiche, a volte risolutive, diete e stili di vita che possono limitare l’insorgenza delle crisi. Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Concetta Luisi, neurologa, epilettologa, e ricercatrice della Clinica neurologica dell’Università degli studi di Padova.
I farmaci di ultima generazione per il trattamento dell’epilessia sono in circolazione da circa vent’anni, e negli ultimi cinque ne sono stati introdotti degli altri. La differenza sostanziale rispetto a quelli di vecchia generazione non è l’efficacia – i farmaci erano efficaci anche prima – ma la maggiore tollerabilità delle terapie moderne, che hanno molti meno effetti collaterali, e una minore interazione con altri farmaci. Questo permette di gestire meglio pazienti con politerapie complesse, che oggi hanno maggiori possibilità di ottenere una terapia farmacologica basata sulle loro esigenze, senza il limite di dover evitare farmaci che interagiscono tra loro.
Di recente sono stati sviluppati anche farmaci in monosomministrazione, da assumere una volta al giorno – una comodità non indifferente – e anche farmaci con formulazioni somministrabili in endovena, utili in situazioni di urgenza.
Esistono poi farmaci orfani (farmaci utili in un numero talmente ristretto di casi che per le case farmaceutiche non è economico distribuirli, e vengono quindi prodotti esclusivamente ad hoc, ndr) come il cenobamato, il cui utilizzo viene validato caso per caso.
Un altro approccio molto utilizzato è quello di studiare molecole già esistenti e utilizzate per altre patologie, che per alcune proprietà mostrano di avere effetti antiepilettici. È un approccio molto utilizzato in farmacologia, perché a volte è possibile scoprire dei meccanismi nuovi di molecole già note.
Quando parliamo di terapia anti-epilessia, non parliamo di farmaci che curano l’epilessia, ma che evitano insorgenza dei sintomi. Sono farmaci anti-crisi. Riducono l’eccitabilità delle cellule nervose, che è alla base della scarica elettrica anomala da cui le crisi hanno origine. Insomma, non si cura l’epilessia alla causa.
Oggi però, mediante uno studio sempre più approfondito della genetica, ci si orienta anche verso terapie di medicina di precisione. Si cerca quindi di sviluppare farmaci che agiscano sul meccanismo alla base dell’epilessia. Per esempio, nella sclerosi tuberosa lo sviluppo dell’epilessia è dovuto a delle lesioni cerebrali, che sono causate da un’anomalia genetica. Sono stati sviluppati dei farmaci che agiscono proprio a livello genetico, e non per ridurre l’eccitabilità delle cellule “a posteriori”. In questo modo si tende a bloccare il meccanismo all’origine, evitando anche una progressione della patologia che può determinare anche una farmacoresistenza.
Circa il 70% dei pazienti con epilessia risponde bene a una terapia farmacologica con uno o due farmaci. Naturalmente l’ideale è utilizzarne meno possibile. Si parla di farmacoresistenza quando anche un mix di due farmaci si rivela inefficace. In quel caso sappiamo già che sarà difficile ottenere una risposta anche a un terzo e oltre, quindi iniziamo a valutare strategie alternative, come la chirurgia, o farmaci con diversi meccanismi di azione.
Esatto, i farmaci cannabinoidi vengono utilizzati da qualche anno ormai. Agiscono sul sistema endocannabinoide, sempre riducendo l’eccitabilità delle cellule nervose. Questi farmaci derivati della cannabis contengono cannabidiolo (ovvero il CBD, una molecola che non ha effetti psicoattivi e non crea assuefazione, a differenza del THC, ndr), e sono approvati solo per alcune forme particolarmente severe di epilessia, come la sindrome di Dravet e la sindrome di Lennox-Gastaut.
Si tratta di un approccio che si cerca di adottare il più possibile, ma non sempre è la prima scelta. Di solito, infatti, i farmaci sono più impattanti a livello di effetti collaterali, quindi il loro utilizzo deve essere giustificato da una farmacoresistenza o da altre condizioni. Ma certamente il guardare alla patologia nel suo complesso, e non solo ai suoi sintomi, è una novità stimolante. Prima si pensava che fosse una malattia dovuta a una predisposizione genetica non identificabile, mentre ora si cercano punti di vista diversi, grazie al progresso degli studi sulla genetica.
Peraltro, anche in caso di epilessia focale – in cui le scariche elettriche anomale si originano in una specifica e circoscritta area del cervello – si cerca di indagare in primis le cause della specifica condizione del paziente, per cercare l’approccio migliore.
Sì, in genere l’intervento chirurgico viene valutato in primis dove c’è farmacoresistenza. Si può intervenire a scopo palliativo, per ridurre il numero di crisi, per esempio stimolando il nervo vago, oppure si può cercare di curare definitivamente la malattia. Proprio nel caso di un’epilessia focale si può valutare l’asportazione dell’area che innesca le crisi, laddove non ci sia il rischio di deficit funzionali importanti. In questo modo il paziente guarisce a tutti gli effetti.
La farmacoresistenza interessa circa il 30% dei pazienti. Di questi, buona parte – circa il 50% – sono epilessie focali. Ovviamente l’approccio va modellato sul singolo caso. È importante uno studio approfondito con PET cerebrali, risonanze magnetiche ad alto campo, e registrazioni elettroencefalografiche prolungate per individuare la regione su cui operare. Quando non si riesce a individuarla si fanno indagini di secondo livello con elettrodi intracranici per registrazioni profonde. Poi c’è da capire se la regione può essere asportata senza rischiare deficit funzionali.
Rimedi non farmacologici non ne esistono. Ma ci sono altre strade, pur non sostitutive di una terapia farmacologica. La dieta chetogenica, che prevede un ridotto consumo di carboidrati, può essere sicuramente molto efficace, specie in età pediatrica, ma non tutti i pazienti possono tollerarla. Si tratta di una dieta che altera il ph del corpo generando acidosi, il che riduce l’eccitabilità delle cellule cerebrali. Può anche coadiuvare alcune terapie farmacologiche.
Un altro approccio è più centrato sullo stile di vita. Si cerca di favorire un ciclo sonno-veglia regolare, e un riposo notturno sufficiente, che può essere agevolato integrando melatonina.